black marker

Atteone ferito dall’inchiostro

Ovidio ne parla nel terzo libro delle “Metamorfosi” in uno dei luoghi più belli e dinamici, misteriosi. La dea Diana, sorpresa nuda in una fonte purissima del più fitto bosco, inorridisce contro l’incauto cacciatore e, non avendo vicini le frecce e l’arco, riempie d’acqua il cavo delle mani, lo colpisce nel volto con quel getto chiarissimo. Sui monti di Tebe, il Citerone, Atteone diventa, in quel caldo meriggio, un segno alto di metamorfosi e d’inevitabile sconfitta dei mortali quando si fanno troppo vicini agli dei. Galafassi ne ha riscritto il mito e, agli spruzzi d’acqua, al gesto violento e predace di Diana, ha sostituito gli inchiostri della sua penna: così lo ha disegnato caduto, tatuato di ferite nella sua ardente curiosità di vedere la dea, quell’indugio di un attimo che gli costa la vita: da cacciatore diventato preda, trasformato in cervo (perché di essi andava a caccia nei chiusi boschi della sua terra) s’allontana graffiando a lungo l’aria, con un doloroso bramito. Il destino (“sic illum fata ferebant”) lo aveva condotto in quel luogo e gli aveva mostrato la verità della pura bellezza. Negli occhi di quel nuovo animale, inseguito dai suoi stessi cani, rimase il biancore lucente del corpo dell’intoccabile dea: aveva visto troppo per poter rimanere nella condizione precedente, poveramente umana. Ora, porterà questa diversità in un corpo simile a quello delle vittime della sua caccia. Marco Galafassi lo ritrae come caduto da cavallo (sembra di vedere la “Conversione di San Paolo” di Caravaggio, del 1602) e grida al cielo il suo stupore. La mostra di Galafassi, “Black marker”, è tutta nella ricerca della quotidianità fissata in una sconvolta luce: la norma indicibile, il tempo che si ferma in una distratta serenità insicura. Come, ad esempio, in quel piccolo capolavoro che è ”City-bike”, dove sentieri di strade, personaggi, biciclette contro gli alberi, automobili, sono evidenziati in una fredda violenza narrativa senza suono, una tempesta spenta da mozzare il fiato. Nove opere fissate sul supporto dal più umile degli strumenti, una penna marker, evocano la fitta trama della percezione, la luce cieca di una città uguale a se stessa nella fitta disperazione di una trama disegnata. Così, ancora, in “Terremoto”. Già in “Apparire e nascondere”, la sua mostra del 2007, era centrale il mito di Atteone e Diana, la sete di quest’artista d’inoltrarsi nei miti e tornarne mutato. Ora, con questa messa in mostra dei suoi ultimi lavori, il mito si è abbassato fino a raggiungere giardini disfatti di metropoli senza nome, il volto irraggiungibile dei suoi abitanti, la musica acre delle periferie. E l’uso della penna marker sta a significare proprio lo scendere della pittura in quella quotidianità notturna, difficile, autoreferenziale. Atteone è solo, si vede dietro la sua testa l’alone di una presenza animale, ma la dea, Diana, è lontana, forse non è mai esistita. Il pittore dà a sé in queste opere una nuova responsabile norma, dipingere come utilizzasse l’alfabeto della più semplice comunicazione, ai confini delle insegne pubblicitarie. La penna indelebile (marker) incide un segnale, poi un altro e noi stessi non siamo che segni sulla ruvida superficie dell’inappartenenza, una spiaggia sporca, una piazza notturna, la riva di un fiume che non c’è. Ritorna il mito di Atteone nella luce nera di una città devastata: “Non resta / nulla oltre il bosco / che gli si chiude intorno, in quello strazio di rami. / Sulla neve, lentamente / scesa, oltre la meridiana calura si muove come / a un richiamo del sonno la luna” (nel mio “Atteone e la luna che uccide”, Ibridilibri, 2005).

Rino Mele

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